Allampanato, fulmineo e folle, del clown Enzo ha la capacità di stupire, di creare quella preziosa atmosfera di magia che confina con la poesia, di inventare incantesimi verbali che non seguono il destino dei miraggi, di lanciare frasi e paradossi fulminanti con la stessa precisione di un lanciatore di coltelli, di far ridere e piangere come solo i grandi artisti sanno fare. Dalla sua dimensione, assolutamente originale, Jannacci in tutti questi anni ci ha raccontato l’avventura umana attraverso piccole storie di personaggi affamati di fantasia, ma con i piedi ben piantati nel delirio quotidiano della realtà.
Ripresentiamo oggi le righe che Andrea Pedrinelli ha dedicato ad Enzo Jannacci nel libro La Milano della memoria. Zona 3 (a cura di Giorgio Bacchiega, 2005); é un omaggio che le periferie di Milano sentono profondamente nei confronti di chi ha saputo conoscerle, ascoltarle e cantarle nella loro commovente profondità, in un percorso tra l’Ortica e il Giambellino, l’Idroscalo e di indirizzi che se non fosse per il documento di residenza non ci si ricorda nemmeno più.
Sicuramente da bambino avevo gusti musicali anomali. Forse era scritto che da grande mi sarei occupato di musica come giornalista. Certo però ancora non lo sapevo quando, a dieci anni, ascoltavo e riascoltavo un vecchio Lp trovato in casa ed intitolato “Milano Canta”. Su quel disco era incisa la voce della grande Milly: lei mi fece conoscere “Stramilano”, “De tant che l’era piscinin”, “Nostalgia di Milano”, “La povera Rosetta”, “El me ligera”. Non che capissi tutto (specie dell’ultimo brano citato…), però mi piaceva.
Mi piaceva ancora di più però l’altra voce incisa sul disco, una voce strana, oggi direi pure bizzarra. Era quella di Enzo Jannacci, del quale avevo già abbondantemente consumato i solchi del 45 giri “Vengo anch’io, no tu no” (retro “Giovanni, telegrafista” compreso). In quel vecchio Lp Jannacci cantava “El purtava i scarp del tennis”, “La balilla”, “Faceva il palo”, “Andava a Rogoredo”, “La forza dell’amore”, “L’Armando”, “Ma mi”. E soprattutto “Faceva il palo”, “L’Armando” e “La forza dell’amore” a me, bambino, piacevano da impazzire. Poi sono diventato, sfortunatamente per i miei lettori, un critico musicale. E ad un certo punto della mia carriera è capitata una di quelle occasioni attese da sempre: conoscere Enzo Jannacci. La prima intervista fu telefonica, e mi avevano avvertito: “Se sbagli domanda, il Dottore si arrabbia e ti saluta”. Un po’ di timore dunque c’era, però dovevo fargli un’intervista riguardo tutta la sua carriera (era il 1999). Così la mia prima domanda -timorosa assai- fu: “Che ne dice, Dottore, di partire da “Il cane con i capelli”?
Dovete sapere che lo strampalato brano in questione, dedicato ad un cagnolino con capelli “finti e belli, disperazione dei suoi fratelli”, era stato il primo proposto da Jannacci in un’audizione Rai. Da cui naturalmente era uscito con l’etichetta di “inadatto all’attività artistica”. Beh, Jannacci si mise a ridere e disse: “Uno che conosce “Il cane con i capelli” mi può fare tutte le domande che vuole”. Il timore scomparve, e di domande gliene feci molte. Poi, nel corso degli anni, gliene ho fatte tante altre ancora. E qui, di seguito, troverete anche molte delle sue risposte.
Faceva il palo
Nella banda dell’Ortiga
Ma era sguercio,
non ci vedeva quasi più.
Ed è stato così
Che li hanno presi senza fatica
Li hanno presi tutti,
tutti tutti tutti,
…fuori che lui.
(Faceva il palo, Valdi-Jannacci)
Padre pugliese, madre lombarda. Cantautore poeta e medico cardiochirurgo. Enzo Jannacci è fin dalle sue note biografiche un perfetto simbolo di milanesità: origini composite, dialetto conosciuto alla perfezione, una passione diventata mestiere ed un mestiere esercitato con passione. In milanese il Dottor Jannacci ha scritto tantissime canzoni: e con loro ha avuto, negli ultimi anni, un rapporto combattuto. Perché “L’Armando”, “El purtava i scarp del tennis”, “La luna è una lampadina” e via andare sono stati i suoi primi successi. Ma lui non si è fermato a viverci sopra di rendita. Dunque per un po’ non ha amato proporli nei concerti, anche perché ci diceva: “Di fronte al pubblico italiano cantare in milanese o cantare “Il cane con i capelli” ha lo stesso effetto. Il napoletano si accetta di più, perché la tradizione è diversa”.
E dunque, pezzi storici banditi e grandi capolavori dimenticati. Fino al 2004, quando è uscito -in largo anticipo sulla data del titolo- l’album “Milano 3.6.2005”, causa prima di un magnifico concerto tutto in meneghino. Il 3 giugno 2005 Enzo Jannacci ha compiuto settant’anni, e li ha voluti festeggiare tornando ad interpretare “Andava a Rogoredo, “Ma mi”, “La balilla”, “El purtava i scarp del tennis”. Ma non solo: anche perle nascoste del suo repertorio, da “El me indiriss” a “Sei minuti all’alba”, da “Per un basin” a “M’han ciamàa”, da “Ti te sé no” a “L’era tardi”, da “Chissà se è vero” a “Veronica”.
Perché, Dottore? “Perché la Milano che io cantavo agli inizi in parte c’è ancora. Se si va in giro a piedi, però, non in macchina. Vede, i miei personaggi sono gente degli anni Trenta e Quaranta: ma gli uomini non sono cambiati poi tanto. Di barboni che muoiono di notte sotto un cartone usato come coperta, ce n’è uno alla settimana. Li vedo”.
L’an trovà, sota a un muc de carton
L’an guardà che’l pareva nisun
L’an tuca che’l pareva che’l dormiva
Lasa sta, che l’è roba de barbon.
El purtava i scarp del tennis, el parlava de per lu
Rincorreva già da tempo un bel sogno d’amore
El purtava i scarp del tennis, el g’aveva du occ de bun
L’era il prim a mena via, perché l’era un barbun.
(El purtava i scarp del tennis, Enzo Jannacci)
Certo il repertorio milanese del Dottore è da brividi. Nel suo concerto più recente Jannacci parla anche di “Veronica”, celebre “primo amore di tutta via Canonica”; ma soprattutto della gente della Milano semplice, non necessariamente povera, ed indifferentemente perbene o permale. La gente di una Milano che, come ha dichiarato al “Corriere della sera”, non c’è più. Milano, non la gente: “Milano era il profumo delle porte, Porta Romana, Porta Ludovica, Porta Genova. Ciascuna un villaggio, una cadenza, un’identità. Milano era la casa di ringhiera, una comunità obbligata. Tutti si conoscevano e parlando nascevano leggende e soprannomi”.
Il concerto più recente di Enzo Jannacci inizia il suo secondo tempo con “El me indiriss”, brano degli anni Settanta.
El me indiriss de due sun nassü
Mi el me ricordi nanca pü
A l’era una cà vegia e per pissà
Tripli servizi, sì, ma in mezz al prà
A serum una banda de ses fiö
Vorevum trà per aria tüt el mund
Ma po la vita la fa quel che la vor
Chi va, chi resta e ghé chi invece el mor
(El me indiriss, Enzo Jannacci)
Paolo Conte, il grande cantautore astigiano, definì questo pezzo “la più bella canzone italiana di tutti i tempi”. Contento, Jannacci? “Ma va’, non esageriamo. Il fatto è che cerco di dare sempre emozioni diverse, raccontando i personaggi che ho visto, o di cui mi parlavano. Dal palo della banda dell’Ortiga al condannato a morte di “Sei minuti all’alba”. Se oggi me la farebbero cantare in tv, questa? Oggi c’è “L’isola dei famosi”, come si fa?”.
Il motto di Jannacci è “dare”: “Ho sempre la speranza che aumenti il livello culturale, o perlomeno il criterio, della gente. Giorgio diceva: “Mi piace piacere”. A me piace dare”. Giorgio, ovviamente, è Gaber: i Due Corsari sono restati amici sino all’ultimo, pur rappresentando anime diverse della cultura milanese. “Con Giorgio ci si vedeva poco ma ci si sentiva spesso. E ci prendevamo in giro, io Iannone lui Nasone. Anche se lui era sempre un passo avanti a me. Del resto io reggo trenta date in tour, lui alla trentesima era pronto: per arrivare a 250”. Però però… “però non ero d’accordo quando cantava che la nostra generazione aveva perso. Vedo mio figlio Paolo, vedo i ragazzi davanti al Papa al Giubileo, vedo ideali nei giovani. Chi ha fatto figli così non ha perso”.
L’ultimo poeta della nostra canzone, insomma, è ancora ottimista, malgrado “le macchine ed una Milano non più concepita per vivere”: “Alla mia età, sa, è l’unica: quando salgo sul palco esigo da me stesso di mirare sempre al cervello. Si scoprono nella gente facoltà ricettive esistenti, anche se a volte nascoste. Già “Il cane con i capelli” mirava a stuzzicare la materia grigia: il problema è che i nostri governanti, di qualunque colore, pensano che la gente non esista. Invece esiste, e prova sentimenti”.
Ti te sé no gh’è pien de lüs che par de vess a Natal
E sura el ciel pien de bigliett de mila
Che bell ch’el g’ha de vess, vess sciuri
Con la radio növa in de l’armadio
Ma quest chi l’è un parlà de stupid
Ti te sé no ma quand mi te caressi
La to bela faceta insci neta
Me par de vess un sciur
(Ti te sé no, Enzo Jannacci)
Ci si commuove, quando Jannacci in teatro -ma anche su disco- recupera pezzi come questo. “Mi ha aiutato mio figlio Paolo, ad essere più aggredibile, a mostrare alla gente tutti i lati di quanto mi è successo in trent’anni e passa. Ringraziando il cielo per quanto ho avuto: “Ti te sé no” la canto per mia moglie, e sul palco offro i miei limiti alla gente. Oggi anche se sbaglio qualche testo non importa. Mi metto in scena come uomo”.
Un uomo, il Dottor Jannacci, che nel 1969 voleva smettere di cantare. A “Canzonissima” non gli fecero portare “Ho visto un re” (anche se la bellissima “Gli zingari” con cui si presentò non sfigurava di certo). “Ero in finale con Morandi. Esisteva già ed era già molto bravo. Ma la Rai disse no al pezzo. Forse andava troppo oltre… Non ho mai voluto farmi produrre spettacoli da loro”.
Ma c’è di peggio, in fondo, nella vita: un peggio che torna anche nelle canzoni del medico-poeta, che a volte questo peggio lo descrivono ed in altri casi incitano a superarlo. “Guardi, io sono nato con la guerra. So cosa significa un cielo oscurato dagli aerei. Nella via dove abitavo solo la mia casa rimase in piedi. Per questo mi incazzo (testuale, ndr) quando qualcuno nelle canzoni incita a drogarsi. Scusi: io, medico, ci metto anni a mandare fuori uno dal tunnel e poi me lo ammazza un canzonettaro?”. Sarà che il mare è sempre lontano, Dottore. Come lei cantava, siamo “Volatori di aquiloni”: e non ci arriviamo, al mare. “Ma c’è. C’è sempre. Resto un sognatore, e per questo sono stato, sono e sarò sempre dalla parte di chi fa fatica a vivere”.
Maria…
Non prendere l’amore come una malattia
Certo che quando si perde il primo amore
In un certo senso è come perdere il sole
Ma tu…
Tieni la tua ferita stretta vicino al cuore
Ci vorrà un po’ di tempo, che a volte è meno attento
E allora forse ti vedrò ancora
In una mano i fiori, gli occhi un po’ meno accesi
Come a riderci sopra
E così sia
Maria…
(“Maria”, Enzo e Paolo Jannacci)
“Vede, questa ragazzina, Maria, è come Giovanni il telegrafista che sognava un amore idealizzato, o Vincenzina nel fumo della fabbrica, o il Mario che non capisce più il mondo. La gente perbene che soffre per le cose di ogni giorno. Per quello dico che continuo a cantare una mia galleria di ritratti, Maria vive negli anni Quaranta oppure oggi? E’ indifferente”.
Nei dischi più recenti, dove magari non canta in milanese ma canta comunque la vita, Jannacci ha tratteggiato comunque anche la propria infanzia, ricordando anche il padre: “Come gli aeroplani” è dedicato a lui. Ed è un album di rabbia, per la gente che “in tasca ha la pistola / ma al posto del cervello solo merda / merda che non puzza nemmeno / curiosamente”. Perché Jannacci si arrabbia, quando vede mancare i valori. “Mio padre mi ha insegnato tutto: soprattutto il rispetto. Ho sofferto da impazzire quando è mancato. Ma quel disco era anche lo sfogo di un cantante rifiutato per anni da tutti”. Già: ed andò così bene, malgrado la scritta “Enzo Jannacci non ringrazia nessuno per l’uscita di questo lavoro” che campeggiava sulla quarta di copertina, che vi ha fatto seguito “L’uomo a metà”, in cui “Lungometraggio” (su Israele e Palestina) si alterna alle malinconie nostrane di “Gente d’altri tempi”, ed in cui Jannacci è tornato più sereno.
“Perché vede, anche se sono “doppio” e vado a sprazzi, facendo il musicista ho imparato molto. Prenda Sanremo. Quando ho cantato “Se me lo dicevi prima” sull’eroina ho ricevuto tantissime telefonate di gente che mi chiedeva aiuto. Quando ho portato “La fotografia” sulla delinquenza minorile delle zone mafiose, il problema è stato affrontato. E mi hanno persino chiesto di fare serate a Capaci, là dove è morto Falcone. Quindi, passati i momenti di rabbia o sconforto, fare musica aiuta sempre. Ho verificato che aiuta altri, ma aiuta anche me. Anche quando canto le malinconie”.
C’era un bel sole che bruciava gli orti
e io ridevo, e io piangevo
perché t’avevo trovato, trovato te
Appuntamento alle 7 e un quarto
Ma dopo un’ora ci arriva un altro
Poteva dirlo, dirmelo prima
Che non poteva venire da me
Chissà se è vero
Chissà se è vero
Che ha dovuto partire soldato
Chissà se è vero
Chissà se è vero
Che insieme agli anni va via anche l’amore
(Chissà se è vero, Enzo Jannacci)
Il Dottore ha debuttato nel 1959, con un pezzo -diciamo così- surrealista, intitolato “L’ombrello di mio fratello”. Ha conquistato prima Milano e poi l’Italia, sfondando nelle hit parade con “Vengo anch’io, no tu no” nel ’68. Dopo alcuni anni di ritiro dalle scene a seguito dello schiaffo morale ricevuto in Rai, “Quelli che…” del ’75 lo ha fatto ripartire alla grande: “Vincenzina e la fabbrica” raccontava dei problemi degli operai, “La televisiun” profetizzava quello che lui chiama oggi il “rincoglionimento generale”. A seguire, altri capolavori: “O vivere o ridere” del ’76, “Foto ricordo” del ’79 (con “Natalia”, toccante vicenda di una bimba malata di cuore, e la celebre “Mario”). Un grande ritorno di fiamma della popolarità Jannacci lo ha ottenuto poi con “Ci vuole orecchio” nell’81, cui è seguito “L’importante” (che conteneva “L’importante è esagerare”, “Sergej” sui primi problemi degli emigrati dall’Est, “Son s’ciopàa” che raccontava “come nascono i comici”, a volte da dolorose riflessioni sulla realtà). Nell’89 e nel ’91 Jannacci si è fatto portavoce di temi importanti a Sanremo, ed in quegli anni ha festeggiato trent’anni di carriera in concerti indimenticabili al Castello Sforzesco prima di dare alle stampe un disco-capolavoro, “Guarda la fotografia” -con tanto di dialogo a distanza col figlio Paolo, in “Parliamone” dedicata al rapporto genitori/figli-. Dopo essere stato dimenticato da tutti (i discografici…) Jannacci è tornato in scena nel 2001 con “Come gli aeroplani”, e nel 2003 con “L’uomo a metà”. Nel 2004 è uscito “Milano 3.6.2005”.
In una carriera ormai lunghissima Jannacci, ha fatto ridere e commuovere. “Perché io sono tutti e due gli Jannacci che lei cita, sa? Sono mite. Sono rissoso. Se cedo all’angoscia scrivo “Cosa portavi bella ragazza”, ma sempre con un pizzico di ironia. Se cedo all’ironia scrivo altro: con un po’ d’angoscia dentro”. E “L’Armando”? Dove la colloca? “Ah bé, in effetti ho tre facce se mi ci fa pensare bene. L’iperbolica, che parla dei diversi; l’angosciata, che parla della fatica del vivere; e poi quella dell’“Armando”, che le riassume entrambe. Il motto è sempre quello di un mio disco, del resto, “O vivere o ridere”. Questo è il dilemma di sempre”.
Enzo Jannacci. Volontario negli ambulatori per gli emigranti, e dice “Giovani, non fatelo, occorre esperienza. Sennò si fanno danni”; medico chirurgo senza limiti di critica al sistema (“Troppi asini che curano il sintomo e non la causa, ma la medicina è fatta anche di ascolto, il vissuto del malato va compreso”); diplomato al conservatorio; jazzista per diporto; amante dei valori profondi dello sport (“Se vince il Milan sono contento, ma oggi preferisco il tennis”); autore per tanti colleghi (“Con me Cochi e Renato hanno venduto seicentomila copie”); senza peli sulla lingua quando si tratta -attività poco in uso nella musica italiana- di elogiarne altri (“Baglioni dovrebbe essere il nostro portabandiera nel mondo, altro che la moda”); allevatore di comici (da Teocoli a Paolo Rossi); attore di prosa.
Non è stato “tutto inutile”, insomma, Dottore. Anche se lei con questa frase ci ha intitolato un tour ed una canzone. Però l’ultima volta che ci siamo visti ci ha ribadito: “Sa cosa vorrei lasciare con i miei dischi e i miei spettacoli di oggi? Pulviscoli di magia da tenersi dentro. Che poi dica cose vecchie o nuove, frasi intelligenti o balordaggini, tutto vorrei che emozionasse. Finché mi emozionerò io per primo”.
L’è chì, Jannacci, è ancora qui. Per nostra fortuna.
Ohé! Sun chì
Vegni giò con la piena
Vegni giò chì a Milan
Ma quand sunt arrivà chì
Mi el terun
Tegnì su com’un fagot dal papà
Contrapes ‘na valis de cartun
Poeu hu vist i cà.
I fiülit giugà
L’è un casot
Ma anche in scì, la me pias anche in scì
L’è perché, sta cità ghe lu denter in di occ
De quand s’eri un fiülin.
E l’ho vista dal tram. Tacà sul respingent
Come in giostra volar
Propri in scì ve la vöri cantàa
Ohé! Sun chì
L’è chì!
(“Ohé! Sun chì”, Fo-Jannacci. E’ con questa canzone che il Dottore inizia i suoi spettacoli basati sul disco “Milano, 3.6.2005”).