Sulle periferie ci sono vari equivoci ed il confronto è fatto via stampa, ma manca uno scambio “ravvicinato”. Ecco dunque qualche considerazione di inizio d’anno per favorire la riflessione, ma anche azione e metodo. E i Municipi a che punto sono? “a Scuola di Periferie” 2018.
Inizio d’anno, occasione per fare qualche riflessione e cercare di individuare degli sviluppi operativi. Le periferie hanno assunto un rilievo abbastanza centrale nel dibattito cittadino. Peraltro, se ci fosse una vera attenzione e condivisione su quel che sono le periferie, almeno a Milano il problema, da tempo, l’avremmo già risolto, perché la nostra città ha tutte le risorse utili per farlo.
Cosa manca, allora?
Appunto, manca la condivisione di un orizzonte comune. Addirittura su cosa intendere per periferie. E se non ci si intende neppure su questo, va da sé che non ci saranno mai le condizioni per affrontare la problematica nel suo complesso, che richiede un impegno corale della città nelle sue varie articolazioni.
Altrimenti, malgrado gli sforzi profusi nel passato ed anche i nuovi impegni prospettati, continueremo a rimanere allo stadio di progetti e di sperimentazioni, dei quali si perdono di volta in volta le tracce (l’elenco sarebbe lunghissimo, perché fantasia e creatività non mancano). Però, non diventano mai “politiche”, cioè metodo ed azione fruibili da tutta la città e, in particolare, dai cento quartieri periferici e da chi vi dimora.
Un paio di esempi.
Alla domanda “Cosa non le piace della città?” (Il Giorno, 19/11/2017), Riccardo Franco Levi, presidente dell’Associazione Italiana Editori, ha risposto: «Non vorrei più sentire parlare di periferie, ma di quartieri della città nei quali si devono innestare le funzioni culturali, migliorare l’abitare». E si tratta del presidente della stessa Associazione Italiana Editori che ha affiancato la recente BookCity voluta dal Comune di Milano, per la quale l’estendersi anche nelle periferie – che per il Sindaco Sala sono un’ossessione – è stato un po’ un carattere distintivo.
D’altro canto, Stefano Boeri, l’architetto del Bosco Verticale, ha affermato (La Stampa, 23/11/2017): «Dobbiamo intenderci sul concetto di periferia».
Allora, proviamo ad intenderci.
Tralasciando, per il momento, la fondamentale questione del “migliorare l’abitare”, prendiamo in esame il tema dei “quartieri della città nei quali si devono innestare le funzioni culturali”. Certo, si può sempre fare qualcosa in più. Però, nelle otto zone “periferiche” della nostra città sono innestate 51 biblioteche (di cui 22 comunali), 111 teatri professionali/amatoriali e 168 centri/associazioni culturali (questo numero è per difetto), per un totale di oltre 330 presenze alle quali, per opportuna informazione, possiamo aggiungere anche 87 Cori amatoriali. Un patrimonio di oltre 400 realtà culturali che Consulta Periferie Milano continua ad evidenziare in ogni occasione e che da tempo è documentato sul sito periferiemilano.com, ove ogni mese c’è un Calendario che segnala oltre 150 iniziative ad ingresso gratuito.
Qual è il problema, allora?
In primo luogo, che la realtà culturale delle periferie milanesi non è monitorata, quindi non è conosciuta nella sua condizione complessiva, con il risultato che quando se ne parla si rischia di farlo indistintamente, come se parlassimo di Palermo o di Parigi o di Nairobi.
In secondo luogo – estremizzando il concetto, ma non più di tanto – il solo Teatro alla Scala ha un bilancio annuo di 125 milioni (con 40 milioni di contributi pubblici), mentre il bilancio annuo complessivo della Cultura del Comune di Milano è di circa 80 milioni, con gli otto Municipi “periferici” che, messi insieme, per sostenere la promozione di iniziative culturali dispongono di mezzo milione all’anno.
Ma non è solo un problema di soldi, che pur sono un indicatore importante (e lo si vede quando un teatro “periferico” deve mettere a norma gli impianti, rischiando di dover chiudere per qualche decina di migliaia di euro). Infatti, uno dei punti centrali è la comunicazione. Perché, dal punto di vista “periferico”, l’obiettivo è di creare le condizioni affinché un sempre maggior numero di persone possa essere informato e, quindi, possa partecipare. Allora, l’informazione deve essere in primo luogo a portata di mano.
Il Comune può e deve fare qualcosa.
E a costo zero. E’ dal 2012 che, per facilitare la conoscenza da parte dei cittadini (anche quelli che non utilizzano i “social”), chiediamo la messa a disposizione di piccoli spazi in alcune pertinenze comunali per l’affissione diretta gratuita: un muro nei mezzanini delle metropolitane e nei mercati comunali coperti, uno spazio nelle bacheche comunali. Ma inutilmente… forse non siamo stati capaci di chiedere bene. Cercheremo di farlo meglio.
Ma… torniamo ad “intenderci”.
L’architetto Boeri ha indicato degli elementi per definire la periferia: «Il primo punto è l’accessibilità: la mancanza di mezzi e di collegamenti ti emargina; secondo, il degrado e l’assenza di servizi: se non posso portare il bambino all’asilo, non c’è la biblioteca, il negozio è lontano, sono condannato all’isolamento; terzo, l’omologazione e la segregazione: vivo tra gente con la stessa origine culturale, fede, povertà, non c’è scambio, non c’è la varietà che colgo in città. Tutto questo determina esclusione, degrado, marginalità». Condizioni che «in Italia non sono solamente ai margini delle aree urbane, talvolta si trovano all’interno delle stesse città. A Milano c’è una zona di degrado, via Gola, che è a 300 metri dalla Darsena». E’ una base di confronto sufficientemente chiara, che cerca di entrare nel merito, senza eludere l’oggetto, le periferie appunto!
Ci permettiamo un rilievo.
Associare il concetto di periferia a quello di degrado ci condanna alla logica dell’emergenza, alla rincorsa dei problemi, che normalmente sono più veloci. Il problema, invece, è prevenire, anche se richiede attenzione ed impegno continui. Allora, periferia non è per forza un termine negativo, che qualcuno magari evita di usare per rispetto ed attenzione a chi dimora nei quartieri periferici, anche inventandosi nuove definizioni. Infatti, a Milano la maggior parte delle aree cittadine periferiche non sono degradate (nello specifico, ci riferiamo al concetto di “periferie urbane”, da tenere distinto da quello di periferie esistenziali o altro ancora: d’altra parte, il MIT di Boston ha catalogato oltre 200 accezioni, talvolta contraddittorie, del termine periferia. Attualmente, l’unico riferimento “urbano” è dato dall’Agenzia delle Entrate, che ha distinto Milano in Centro storico, Centro, Semicentro e Periferia). Ma, il problema è che se non c’è attenzione, si corre il rischio degrado.
I Municipi.
Ma ciò richiede una gestione complessiva e da vicino del territorio. Allora, il tipo di organizzazione dell’Amministrazione comunale è decisivo e strategico, poiché il dato di fatto è che la periferia non si riesce a governare da Palazzo Marino. Al massimo si rincorrono le emergenze. Però, fino ad oggi, il Decentramento politico-amministrativo (ora i Municipi, prima i Consigli di Zona) è rimasto una “cenerentola”, con i vari regolamenti (1977 e 1997) che sono rimasti ciascuno per 20 anni inapplicati. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti, soprattutto nei quartieri di gestione pubblica. E l’applicazione del nuovo Regolamento dei Municipi del 2016 a che punto è? Perché se nelle periferie, come del resto nella restante parte della città, sono molteplici e differenziati i soggetti implicati, creando delle dipendenze reciproche, con difficoltà di coordinamento, il regolamento dei Municipi è di esclusiva competenza del Comune di Milano che deve procedere, Sindaco in testa.
Per intenderci.
Comunque, per “intenderci” c’è la possibilità di dialogo e di approfondimento offerta da “a Scuola di Periferie”, un percorso di 60 “lezioni” nel biennio 2017-2019, dove ciascuno può imparare, ma anche insegnare, per conseguire un obiettivo che può essere raggiunto solo se ci sarà un impegno comune e condiviso.